Biografia di Bruno Munari

Pittore, scultore, designer grafico e industriale, artista nel senso più ampio, Bruno Munari è stato una delle figure più indipendenti e influenti nella storia dell’arte, del design e della grafica italiana e internazionale del XX secolo, dando contributi fondamentali in diversi campi dell’espressione visiva (pittura, scultura, cinematografia, disegno industriale, grafica) e non visiva (scrittura, poesia, didattica) con una ricerca poliedrica sul tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell’infanzia attraverso il gioco. Bruno Munari è figura leonardesca tra le più importanti del Novecento italiano.

Nato a Milano nel 1907, cresce nel Polesine (Veneto meridionale) dove i genitori gestiscono un albergo. Questi primi anni in un ambiente di campagna formano molte delle estetiche e delle domande in seguito fondamentali per il lavoro di Munari; nel 1926 si ritrasferisce a Milano, dove molto presto si unisce al gruppo di artisti del secondo Futurismo, con Severini, Marinetti, Prampolini e Aligi Sassu, contribuendo a fondare il Gruppo Lombardo Radiofuturista nel 1929, ed esplorando l’aeropittura.

Assieme allo spaziale Lucio Fontana, Bruno Munari il perfettissimo domina la scena milanese degli anni Cinquanta- Sessanta; sono gli anni del boom economico in cui nasce la figura dell’artista operatore-visivo che diventa consulente aziendale e che contribuisce attivamente alla rinascita industriale italiana del dopoguerra. Fin dal 1929 lavora come grafico pubblicitario, e nel 1930 fonda lo studio grafico R+M con Riccardo Castagnedi.

“Non c’è stato un momento, nella mia infanzia e nella mia vita, in cui mi sono accorto che la mia strada sarebbe stata quella dell’artista. C’è sempre stata una specie di ‘dissolvenza incrociata’ tra la vita normale di paese e una mia attività che oggi si definirebbe ‘creativa’, provocata dalla curiosità e dalla voglia di fare qualcosa di diverso dal solito.”

Molto presto si distacca dal Futurismo con senso di levità ed umorismo, inventando la Macchina Aerea (1930), primo mobile nella storia dell’arte, e le Macchine Inutili (1933), queste sono la prima è più completa espressione della poetica di Munari, composizioni aeree di elementi leggeri con gradi diversi di Cinetismo, dove tutti gli elementi sono in rapporto armonico tra loro, per misure, forme, pesi. che avvicinano la macchina al non-utile e l’arte all’utile.

Non ci deve essere un’arte staccata dalla vita, cose belle da guardare e cose brutte da usare.

Altrettanto rapidamente, però, Munari forza i limiti concettuali e tecnici di pittura e scultura: il suo lavoro si fa sempre più autonomo, diventando un lavoro sull’oggetto e sul meccanismo come soggetti, di cui studiare il comportamento, che incarnano e attivano le azioni umane. Con l’aggiunta nel ragionamento del fattore spazio, questo approccio saprà esprimersi al massimo della trasversalità in diversissimi campi e tramite i media più diversificati.

Durante un viaggio a Parigi, nel 1933, incontrò Louis Aragon e André Breton.

A partire da queste prime espressioni, Bruno Munari rende sempre più autonoma la sua posizione (Manifesto della Aeroplastica futurista, 1934) e il suo campo di azione: nel 1942, pubblicando Le macchine di Munari presso Einaudi, diventa collaboratore della casa editrice torinese alle grafiche, un rapporto che continuerà per oltre 40 anni. Munari sarà il creativo grafico di molte testate: nel 1939 Mondadori lo ingaggia come direttore artistico di Grazia e Il Tempo, e dal 1950 sarà grafico per il neonato Epoca; tra 1943 e 1944 è direttore creativo di Domus, in anni difficili in cui riuscirà nondimeno a promuovere un discorso di ricostruzione e innovazioni di comunicazione visuale attraverso le sue grafiche anti-rigoriste ed eclettiche.

All’abbandono dei fronti futuristi per la grafica si aggiunge poi, dopo la guerra, il passaggio di Munari a forme di sperimentazione artistica sempre più legati ai mondi della materia e della macchina: nel 1948 è tra i fondatori del M.A.C. (Movimento Arte Concreta), assieme a Gillo Dorfles, Gianni Monnet e Atanasio Soldati. Questo movimento funge da coalizzatore delle istanze astrattiste italiane prospettando una sintesi delle arti, in grado di affiancare alla pittura tradizionale nuovi strumenti di comunicazione ed in grado di dimostrare agli industriali e agli artisti la possibilità di una convergenza tra arte e tecnica.

Nel 1947 realizza Concavo-convesso, una delle prime installazioni nella storia dell’arte, quasi coeva, benché precedente, all’ambiente nero che Lucio Fontana presenta nel 1949 alla Galleria Naviglio di Milano. È il segno evidente che è ormai matura la problematica di un’arte che si fa ambiente e in cui il fruitore è sollecitato, non solo mentalmente, ma in modo ormai multi-sensoriale.

Gradualmente esplora l’ambito dell’arte cinetica, la coesistenza di moti organici e meccanici propria delle opere di Alexander Calder e di molti componenti del gruppo Zero. Le sue ricerche visive lo portano a creare i negativi-positivi, quadri astratti con i quali l’autore lascia libero lo spettatore di scegliere la forma in primo piano da quella di sfondo. Nel 1951 presenta le macchine aritmiche in cui il movimento ripetitivo della macchina viene spezzato dalla casualità mediante interventi umoristici. Sempre degli anni Cinquanta sono i libri illeggibili in cui il racconto è puramente visivo e inizia sperimentazioni visuali, lavorando su proiezioni dirette a luce polarizzata fino a realizzare film sperimentali, realizza la pittura proiettata attraverso composizioni astratte racchiuse tra i vetrini delle diapositive e scompone la luce grazie all’uso del filtro Polaroid realizzando nel 1952 la pittura polarizzata, che presenta al MoMA nel 1954 con la mostra Munari’s Slides. Nel 1953 presenta la ricerca il mare come artigiano recuperando oggetti lavorati dal mare, mentre nel 1955 crea il museo immaginario delle isole Eolie dove nascono le ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari, composizioni astratte al limite tra antropologia, humour e fantasia. Nel 1958 modellando i rebbi delle forchette crea un linguaggio di segni per mezzo di forchette parlanti e presenta le sculture da viaggio che sono una rivisitazione rivoluzionaria del concetto di scultura, non più monumentale ma da viaggio, a disposizione dei nuovi nomadi del mondo globalizzato di oggi. Nel 1959 crea i fossili del 2000 che con vena umoristica fanno riflettere sull’obsolescenza della tecnologia moderna.

È considerato uno dei protagonisti dell’arte programmata e cinetica, ma sfugge per la molteplicità delle sue attività e per la sua grande ed intensa creatività ad ogni definizione, ad ogni catalogazione, con un’arte assai raffinata.

La sua ricerca quindi si articola ancora, si concentra sulla macchina e sul good design (è firma fissa per molti produttori di industrial design, come la ditta Danese con cui collabora dagli anni ’40, realizzando icone come il posacenere Cubo del 1957 o la lampada Falkland del 1964) e se ne fissano molti principi. È sempre presente il discorso dell’esplorazione della forma, espresso nelle grafiche più o meno rigorose ma sempre improntate a una comunicativa efficace e diretta, o in opere plastiche quali le Sculture da viaggio pieghevoli in cartone (dal 1958). Sempre in una chiave creativa molto spesso immaginativa, ancor più spesso ironica, è la natura, retaggio dei suoi primi anni nelle campagne del Polesine, ad essere presente nelle sue opere figurative, nei prodotti da lui disegnati (giocattoli come la Scimmietta Zizì per Pigomma, 1952) e nelle sue illustrazioni, spesso veri cataloghi di animali fantastici (Zoo, 1963); l’espressione del suo mondo fantasioso prenderà più volte la forma dell’ illustrazione di libri per bambini (Cappuccetto Verde e Cappuccetto Giallo, 1972; Il furbo colibrì, 1977).

Nel 1962 organizza poi a Milano la prima mostra di Arte Programmata, si dedica alle opere seriali con realizzazioni come aconà biconbì, sfere doppie, nove sfere in colonna, tetracono (1961-1965) o flexy (1968) e nel 1964 inizia anche a lavorare alle sue Xerografie originali, ritratti deformati attraverso lo spostamento in fase di riproduzione con una fotocopiatrice. Si dedica alle performance con l’azione far vedere l’aria (Como, 1968); alle sperimentazioni cinematografiche con i film i colori della luce (musiche di Luciano Berio), inox, moire (musiche di Pietro Grossi), tempo nel tempo, scacco matto, sulle scale mobili (1963-64). Infatti, insieme a Marcello Piccardo e ai suoi cinque figli a Cardina, sulla collina di Monteolimpino a Como, tra il 1962 e il 1972 ha realizzato pellicole cinematografiche d’avanguardia. Da questa esperienza nasce la “Cineteca di Monteolimpino – Centro internazionale del film di ricerca“.

Negli anni Sessanta diventano sempre più frequenti i viaggi in Giappone, verso la cui cultura Munari sente un’affinità crescente, trovando precisi riscontri al suo interesse per lo spirito zen, l’asimmetria, il design e l’imballaggio nella tradizione giapponese. Nel 1965 a Tokyo progetta una fontana a 5 gocce che cadono in modo casuale in punti prefissati, generando una intersezione di onde, i cui suoni, raccolti da microfoni posti sott’acqua, vengono riproposti amplificati nella piazza che ospita l’installazione.

Lo spazio resta poi l’elemento centrale dell’opera di Bruno Munari, sempre più inteso come la materia dentro la quale la vita umana si articola: è un discorso, di lunga evoluzione, che parte dalle Macchine Inutili e passa dalla ironica Ricerca della comodità in una poltrona scomoda (Domus 202, ottobre 1944) arrivando poi nel 1971 all’ideazione dell’Abitacolo (per Robots), una unità spaziale descritta solo da una struttura metallica leggera dell’ingombro di un letto singolo, in grado di accogliere o supportare tutte le pratiche fondamentali dell’abitare. Il progetto varrà a Bruno Munari il compasso d’oro del 1979, premio che si aggiunge a quelli del 1952, ’54 e’56 e alla medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per il Design del 1963.

Grande comunicatore e insegnante, Munari tiene corsi in diverse scuole tra cui il Carpenter Center for Visual Arts della Harvard University (1967) e l’ISIA di Faenza di cui diviene consulente didattico nel 1980. Prima e dopo la sua morte (avvenuta a Milano nel 1998), sono numerosissime le mostre che, in tutto il mondo, gli sono dedicate, che organizza o a cui partecipa, dalla Biennale di Venezia a partire dagli anni ’30 — fino a quella del 1985 che gli dedica una sala personale

— alla grande mostra antologica milanese del 1986 che dalla prima location di Palazzo Reale girerà in seguito il pianeta per molto tempo.

Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare.”

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